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Trasformismo e imitazione A cura di Sebastiano B. Brocchi. Immagine di apertura: Jazzmin Dian Moore – © Leedonal Moore Non è chiaro chi e quando...

Trasformismo e imitazione

A cura di Sebastiano B. Brocchi.

Immagine di apertura: Jazzmin Dian Moore – © Leedonal Moore

Non è chiaro chi e quando abbia fatto scrivere quelle parole sul tempio di Apollo a Delfi. Una pizia, forse, o uno dei Sette Sapienti della tradizione. Eppure quelle parole, “Conosci te stesso”, rappresentano per tutti noi il punto focale della nostra esperienza nel mondo. Trovare un’identità è difficile, soprattutto in un universo in continua trasformazione dove nulla è uguale a com’era prima e a come sarà poi. Nulla, persino le stelle nel cielo, che nascono o si spengono continuamente sotto i nostri occhi. E intanto il cielo cambia aspetto, anche se pochi ci fanno caso. L’immagine del cielo che vediamo non è il suo aspetto reale, ma un’immagine che viene dal passato, un passato a moltissimi anni luce da noi. Ma allora, se anche quel firmamento che sembra eterno continua a cambiare faccia, come potremmo noi uomini, quaggiù, trovare per noi stessi quella sfuggente e forse irraggiungibile identità che possa definire chi siamo? Chi, ripensando al proprio passato, può dire di essere la stessa persona? Chi, sognando il futuro, immagina di restare uguale al sé stesso del presente? Perciò dove si cerca, dove si definisce, dove si forma un’identità? Guardiamoci attorno: cosa sappiamo davvero degli altri? Spesso persino chi ci è più vicino si rivela essere in gran parte sconosciuto. Siamo misteri, gli uni per gli altri, misteri che si avvicinano e si allontanano, intrecciano relazioni e le sciolgono, si amano o si odiano, ma rimaniamo pur sempre dei misteri, così come tutto ciò che ci circonda. La natura è la prima maestra di travestimento. Chi non ha mai visto i prodigi del mimetismo messi in scena da flora e fauna? Un Phasmida Phyllidae (più noto con il nome comune di insetto-foglia) camuffato tra le fronde di un arbusto, un assiolo perfettamente confuso con un tronco d’albero, un polipo che sfoggia i colori e le forme dei fondali marini… Gli uccelli hanno imparato persino ad imitare i suoni e le voci. Ricordo di aver letto, tempo fa, l’aneddoto di una ghiandaia che aveva imparato ad imitare perfettamente il suono del campanello della bicicletta del lattaio, ingannando gli abitanti di un villaggio inglese. L’averla, un piccolo uccello predatore delle siepi, riproduce i canti di altre specie per attirare le sue prede. Le orchidee hanno sviluppato un labello che imita l’addome di comuni insetti come api e vespe, garantendosi in questo modo ottime chances di attirare gli impollinatori.

[captionpix imgsrc=”http://www.fourticino.ch/wp-content/uploads/2015/02/Travestimento-I.jpg” captiontext=”Jazzmin Dian Moore, vincitrice del titolo Miss Drag Queen Switzerland nel 2008″ width=”520″ height=”821″]

Travestimento, trasformismo, imitazione, fanno parte di ogni aspetto della realtà e della nostra cultura. Come dimenticare il loro ruolo nella letteratura, nella mitologia, nella religione? Un argomento che – ricordate? – avevamo già avvicinato nell’articolo “Oz, il sottile confine tra illusione e realtà” (cfr. “Four Ticino” nr.7), dicendo che Dio è il primo e più grande maestro di travestimenti. Nella Bibbia questi rivestono una posizione molto più centrale di quel che si possa pensare: Yahweh non mostra mai il suo vero aspetto, poiché come spiega a Mosè in Esodo 33,20: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”. Egli adotterà quindi i più diversi travestimenti nel corso della narrazione, da quello di roveto ardente a nube, e persino il personaggio di Cristo che appare nei volumi neotestamentari altro non è, a ben guardare, che un ennesimo travestimento del Dio trascendente che assume un aspetto umano tra gli uomini, compiendo una sorta di creazione alla rovescia che ribalta e completa quella di Genesi 1,26-27, dove è l’uomo a ricevere le sembianze di Dio.

Ma le divinità di altre religioni non sono certo da meno quanto ad inventiva nel mutare le proprie sembianze: la palma spetta forse agli Dei greci e a quelli indiani, che in mille modi ingannano i mortali apparendo a loro continuamente, sebbene sotto mentite spoglie. Alcuni elementi permettono, nondimeno, ai più attenti tra gli uomini, di accorgersene. Come accade a Elena, la quale è in grado di riconoscere nella sua anziana interlocutrice la Dea Afrodite; e lo capisce prestando attenzione “all’incarnato del bellissimo collo, e all’amoroso petto, e degli occhi al tremolo baleno” (Iliade, 3,520).

Ma se le divinità eccellono nell’arte del travestimento, i mortali sono gli allievi che tentano di superare i maestri, e talvolta ci riescono. Il concetto di maschera, che non si riferisce soltanto a un oggetto teatrale, accompagna da sempre gli uomini sia nei loro rapporti con la sfera religiosa e sciamanica, sia con quella profana. Una maschera non è fatta necessariamente di materiali tangibili, siano essi trucchi, parrucche o costumi. Maschera è anche un atteggiamento, uno stile di vita, un modo di confrontarsi con gli altri, un tono di voce, delle parole ben scelte, un mezzo per ottenere uno scopo, un mezzo per creare la propria persona sociale. La stessa parola persona deriva da per-sonàr (suonare attraverso) e designava, per i Latini, la maschera di legno indossata dagli attori del teatro greco. Teatro, carnevale, festa mascherata, non sono altro che simboli del palcoscenico della vita, in cui ognuno di noi interpreta (interpreta, etimologicamente “fa conoscere, mostra, manifesta”) un ruolo, uno degli infiniti modi dell’essere. Che poi tanto infiniti non sono, e a ben guardare si possono ricondurre tutti ad alcuni archetipi o modelli primari, rivisitati in mille varianti. Ma i modelli incarnati da ciascuno sono suscettibili di vacillare, di perdere i loro confini definiti, nel momento in cui entra in gioco il cambiamento d’identità, il travestimento appunto, che poi non è altro che il passaggio da una maschera a un’altra. Quando ciò avviene, viene a crearsi una sorta di confusione, che può essere interiore, famigliare, sociale. La confusione può poi sfociare in scandalo o acclamazione, ostracismo o idolatria, poiché il travestimento, nel nostro mondo, suscita le reazioni più diverse e violente. Alla base di ogni maschera c’è comunque una forma di coraggio, o la volontà di acquisire un coraggio che non si possiede. Che si tratti del cacciatore tribale che attraverso la maschera o la danza cerca l’appoggio del proprio animale totemico; del ladro con il suo passamontagna; del cantante dall’eccentrico costume di scena che spera negli applausi del pubblico; del guerriero che tenta di assumere un aspetto grandioso e aggressivo capace di intimorire i nemici; dell’aspirante rubacuori, magari bruttino, che si confeziona un profilo online da gran figo; o ancora dell’uomo d’affari che attraverso il conformismo e gli status simbol prova ad inserirsi in un contesto economico e sociale; in tutti questi e in tutti gli altri casi possibili, l’uomo si traveste per ottenere una forza che gli manca. La maschera diventa quella spinta in più che gli permette di compiere lo scopo prefisso.

Una delle forme di travestimento che sicuramente ha attraversato la storia nelle più svariate manifestazioni, è quella che permette di valicare i confini di genere sessuale. L’uomo che si traveste da donna, la donna che si traveste da uomo. Succede dalla notte dei tempi, per i motivi più disparati, con o senza l’approvazione della società. Ne traboccano la letteratura, il teatro, e più recentemente il cinema e il cabaret. Senza dimenticare chi un simile travestimento lo adotta non a fini scenici, per entrare nei panni di un determinato personaggio, bensì per compiacere una naturale disposizione psicologica che si trova “imbrigliata” in un corpo non suo.

Uno dei fenomeni più caratteristici per quanto riguarda il travestitismo nella nostra epoca, è quello della drag queen. Parliamo cioè di un attore, cantante o ballerino che, in scena, si esibisce in abiti e trucco femminili spesso eccentrici e maliziosi. Lo stesso vale per una donna che si esibisca in abiti maschili, e che in questo caso verrà chiamata drag king. Per voi ho intervistato una delle più celebri drag queen elvetiche, Jazzmin Dian Moore, vincitrice del titolo di Miss Drag Queen nel 2008 nonché concorrente al titolo di “Grössten Schweizer Talente” nell’edizione 2011 del popolare show televisivo di SF con l’imitazione di Beyoncé. Fuori dalle scene, smessi i panni della femme fatale, Jazzmin torna ad essere il parrucchiere zurighese Leedonal Moore…

D: Come consideri il personaggio di Jazzmin? Semplicemente te stesso in abiti femminili o una persona con il proprio carattere, punti di vista, modo di essere, non necessariamente collimanti con i tuoi?

R: Jazzmin non è nata da subito come appare oggi. È piuttosto il frutto di uno sviluppo iniziato diversi anni fa. Per essere più precisi, tutto è iniziato quando, a 13 anni, sono andato a un carnevale con un costume da cowgirl. Ricordo ancora l’espressione sul volto di mia nonna quando ha detto: “Oh mio Dio! Sembra proprio una ragazza!”. Ho subito apprezzato l’idea, e mi ha reso orgoglioso il fatto che potevo apparire come qualcosa o qualcun altro molto facilmente. Quella è stata l’ultima volta che ho vestito i panni di una ragazza fino a circa 17 anni. Allora mi unii ad uno dei primi e ben noti gruppi di drag dance della Germania, chiamato “The planet sexy fancy dancers”. Ma essere drag, allora, voleva dire usare un sacco di make up, costumi giganteschi e un look molto androgino. Non era tanto una trasformazione da maschio a femmina, ma in una sorta di creatura meravigliosa e scintillante… Beh, non ho mai veramente amato un trucco eccessivo, ecc., desideravo un aspetto molto più realistico e umano. Fu così che nacque il personaggio di Kelly. Kelly era molto sexy e impertinente; ma dopo un po’ capii di non sentirmi del tutto a mio agio nei suoi panni, dal momento che sono stato cresciuto con stile e dignità. Perciò ho creato Jazzmin Dian Moore (dove Jazzmin sta per la musica e la bellezza, Moore è il mio vero cognome e Dian un’aggiunta per conferire più armonia).

Per rispondere infine alla tua domanda: quando ero molto giovane, in realtà volevo anche essere una donna vera, ma con il tempo sono diventato più consapevole del potere di creare l’illusione attraverso il mio aspetto e gli abiti che indosso. Così ora Jazzmin è un personaggio di finzione che condivide molti frammenti reali di me. E sì, Leedonal e Jazzmin condividono sempre le stesse opinioni. La più grande differenza tra Jazzmin e Leedonal è che Leedonal è molto tranquillo e umile, gli piace restare dietro le quinte, mentre Jazzmin è una vera diva dal cuore caldo e amorevole, anche se non lo mostra così facilmente…

D: Qual è l’aspetto che maggiormente ti affascina nel dare vita a un personaggio? La possibilità di diventare “demiurgo” fabbricando una persona su misura? La possibilità di interpretare un’esperienza che non appartiene alle tue normali predisposizioni caratteriali, e dunque trovare quel “coraggio espressivo” che solo una maschera riesce a dare? Il desiderio di evadere occasionalmente dalla tua identità ordinaria, dimenticando per un momento ruoli e abitudini?

R: L’aspetto che mi affascina di più è che cerco sempre di rimanere me stesso. Il che a volte può essere molto difficile, soprattutto quando devo impersonare una star come Beyonce. Posso essere lei con un tocco di Jazzmin. Non ho bisogno di una “maschera” per esprimere il mio carattere. Ma la cosa sicuramente più interessante è osservare le reazioni della gente intorno a me, dal giudizio che danno osservandomi in un diverso aspetto. Per esempio, se la gente guarda una persona vestita in modo normale potrebbe pensare: “Oh che bel look!”, ma se si indossa qualcosa di molto luccicante, le persone intorno a voi penseranno: “Oh wow, che fantastica star!”. Ma io personalmente ritengo che una vera star sia definita dalle sue azioni e non dal suo aspetto. E sì, a volte ci si sente bene a scappare e tuffarsi in un altro personaggio, ma comunque mai per nascondersi.

D: Perdi mai la percezione delle “frontiere” tra le due identità?

R: In realtà, a volte, è molto difficile individuare i confini. Soprattutto quando devo fare diversi spettacoli e perfomances. Alla fine di ogni spettacolo io sono sempre molto felice di togliermi il trucco e indossare di nuovo i miei confortevoli abiti. Ma talvolta i piccoli gesti rimangono. Ad esempio la dolcezza e la morbidezza nel linguaggio del corpo. E pur tornando ad essere uomo ma con questa maggiore delicatezza, mi diverto a scorgere la confusione sui volti della gente intorno a me.

Ma se qualcuno si traveste per valicare i generi sessuali, altri lo fanno nel tentativo di esplorare frontiere ancora più curiose ed estreme. Come il secondo personaggio con il quale ho avuto il piacere di discutere: il texano Erik Sprague, internazionalmente noto come “the Lizardman”, l’uomo lucertola. Erik ha scelto di intraprendere un percorso che va ben oltre il travestimento, e si potrebbe definire una trasformazione o metamorfosi (poiché praticamente irreversibile), per diventare appunto un essere ibrido, a metà strada tra uomo e rettile; il tutto passando attraverso trucco, tatuaggio e operazioni chirurgiche. Quello di Erik non è l’unico caso di ricorso alla chirurgia per assomigliare a un animale, e del resto questa propensione umana ad identificarsi con un animale “totemico” fino al punto da volerlo imitare nell’aspetto fisico è antica quanto le prime società tribali.

D: A che punto della tua vita hai preso la decisione di diventare un uomo lucertola e quali sono state le tappe principali del tuo percorso di trasformazione?

R: Non credo ci sia stato un unico punto, bensì la crescita naturale e lo sviluppo di me stesso come persona e come artista. Non ho mai deciso di diventare un Lizardman. Stavo esplorando e lavorando con le idee sulla trasformazione e su cosa significhi essere umani (in senso linguistico – come applichiamo e usiamo il termine ‘umano’) insieme al crescente utilizzo del mio corpo e della performance come mezzi espressivi, e il mio progetto di trasformazione è diventato un modo per fondere queste ed altre idee. Avevo circa 18 anni quando ho avuto l’idea di base e poi ho speso anni a lavorare e giocare con essa. A 21 anni ho sentito che era qualcosa che volevo davvero e da cui potevo trarre beneficio e così è stato in quel momento che ho cominciato a farmi tatuare – con l’idea di una trasformazione completa ma senza sapere se l’avrei mai davvero raggiunta. Da allora (sono passati vent’anni) ho continuato a lavorarci e a esplorare il progetto.

D: Questa metamorfosi fisica ha anche influenzato la tua esperienza interiore, la tua percezione psicologica di te stesso?

R: Sicuramente l’ha influenzata, ma non credo più o meno che in chiunque altro sia interessato dal modo di presentarsi fisicamente al mondo. Semplicemente mi succede di intervenire più consapevolmente in ciò che sto facendo. Quando qualcuno si veste per un evento, formale o causal, sta inviando un messaggio attraverso l’apparenza e/o il comportamento. Io faccio la stessa cosa ma in un modo e in una direzione che la maggior parte delle persone non prenderebbero. In tal modo, se non altro, ho rafforzato la mia percezione di chi sono e la capacità di essere me stesso nonostante le pressioni esterne.

D: In che misura questa scelta ha cambiato le tue relazioni sociali e famigliari?

R: In termini di amici e parenti che facevano parte della mia vita prima di iniziare la mia trasformazione non c’è stato quasi nessun cambiamento. Mi conoscevano, sapevano chi ero, perciò sono stati in grado di accettare questo come il mio naturale sentiero. Aveva senso per loro almeno quanto l’ha avuto per me. Mia madre ha detto che per lei sarebbe stato ben più sorprendente se non avessi fatto qualcosa di simile. Mentre per le persone che ho incontrato da quando ha avuto inizio questo progetto è stato un filtro incredibile, per tenere lontane le persone che probabilmente non avrebbero nulla da aggiungere alla mia vita, e avvicinare coloro che hanno qualcosa da offrire. Non c’è molto da congetturare, basta uno sguardo per capire immediatamente se abbiamo qualcosa da offrire l’uno all’altro.

D: Vivi la tua nuova pelle come un travestimento, una maschera, oppure come la rivelazione della tua vera natura, che prima non potevi esprimere in modo autentico?

R: Più come una rivelazione della mia vera natura, ma non perché io mi senta un rettile, bensì perché questo è il tipo di persona che sono e questo è il genere di cose che mi interessano. Comprensibilmente molte persone vengono distratte dai particolari esteriori di quello che ho fatto (come tatuare il mio volto), senza veramente apprezzare i principi di fondo che mi hanno portato a tali azioni (vivere la vita alle mie condizioni, non avere paura di rischiare, giocare con l’idea stessa di umanità).

D: C’è una componente esibizionistica nella tua scelta, la volontà di ammaliare il pubblico, o pensi che avresti voluto diventare l’uomo lucertola anche se non ci fosse nessuno ad ammirarti?

R: Tutti gli artisti, se vogliono sopravvivere e assicurarsi da vivere come tali, devono anche essere imprenditori. La componente esibizionistica in quello che faccio – spettacoli teatrali, ecc. – è finalizzata a capitalizzare su qualcosa che farebbe comunque parte della mia vita. Quindi si tratta d’intrattenimento destinato in primo luogo a me stesso, ma mi fa piacere a volte esibirmi per gli altri in modo da non dover svolgere altri lavori per vivere, che per giunta potrei trovare meno soddisfacenti. Quando ho iniziato la mia trasformazione ero convinto che questa sarebbe stata qualcosa che avrei dovuto nascondere, o fare a dispetto di altre occupazioni, invece sono stato abbastanza fortunato da averne potuto fare il mio lavoro.

D: Pensi che ci siano (o conosci) altre persone che si sentono “animali” ma che non hanno intrapreso una trasformazione come la tua per paura o altri impedimenti?

R: Ho incontrato e fatto amicizia con molte persone che hanno una vasta gamma di idee sul come relazionarsi agli animali o persino sull’essere animali sebbene in forma umana. Alcuni di loro hanno imboccato strade simili alla mia, altri ritengono che non avrebbe soddisfatto o realmente risolto la loro condizione. Nel complesso, tendono a ritenere che il mio lavoro provenga da una forma di espressione artistica, a differenza dei sentimenti più intimisti da loro avvertiti, ed io rispetto questa loro convinzione. Indipendentemente da ciò, amo ripetere che io non appoggio o incoraggio nessuno a fare quello che ho fatto io, ma piuttosto a guardare perché l’ho fatto, poiché mentre i tatuaggi e gli interventi chirurgici non sono per tutti, i principi fondamentali di auto-esplorazione e di conoscenza di sé sono ciò da cui ognuno di noi può trarre beneficio.

Per ultimo ma non da ultimo, in questa mia riflessione sulle molteplici “maschere” assunte dall’essere umano, ho avuto un breve scambio di battute con uno degli imitatori più amati del piccolo schermo: Dario Ballantini, conosciuto soprattutto per le sue imitazioni di personaggi della politica, della canzone, ma anche della moda e del clero. L’imitazione ci fa ridere, certo, ma è davvero solo questo il suo scopo?

D: Che significato ha per te l’imitazione? Qual è il suo obiettivo sociale e culturale?

R: Per me significa dimostrare che gli esseri sono collegati e si può essere anche altro. L’obiettivo sociale è come uno psico-dramma: cioè, interpretando un personaggio, l’originale si accorge dei propri difetti o particolarità e socialmente serve in quanto offre un modo di capire come ci vedono gli altri.

D: Puoi parlarci del tuo repertorio di personaggi, dicendoci se tra i tanti ce n’è uno che hai vissuto in modo particolare e, se sì, per quale motivo?

R: Il repertorio è vasto. Ho iniziato trent’anni fa e potrei partire da Totò per arrivare al Papa attuale. I più significativi sono negli anni di gavetta (16) Lucio Dalla, Totò, Bracardi. Nell’approdo a Striscia Dario Fo’ e la Borboni. Nel successo Valentino e Gianni Morandi. Per i raffinati Gino Paoli e Nanni Moretti. Per Antonio Ricci Margherita Hack. Per i miei spettacoli Vasco. I motivi sono tanti, nei primi anni ho studiato i film di Totò ed ero appassionato di Petrolini come eredità teatrale e di Lucio Dalla come cultura musicale. Avevo uno show in cui ero arrivato ad interpretare fino a 30 personaggi. Quando ho conosciuto Ricci ad un concorso per giovani talenti lo colpii con Ray Charles, Jannacci e sopratutto Dario Fò che mi fece poi interpretare a Striscia, seguito da Paola Borboni e Ignazio La Russa. Il successo arrivò però con Valentino seguito da Morandi, Gino Paoli e Montezemolo. Poi ci sono stati gli anni della satira politica con Marini, Maroni, Brambilla, Renzi, Alfano, Cancellieri e quest’anno addirittura con il Papa…

D: Oltre ad essere un eccellente imitatore, sei anche un talentuoso pittore. Uno dei tuoi soggetti preferiti sono i primi piani di figure umane. Pensi che la tua sensibilità artistica di porti a cogliere in modo più profondo l’attitudine delle personalità che studi?

R: Si è l’unica via che conosco. Continuo a studiare i volti e le personalità ed inevitabilmente li scarico su tela con la mia sensibilità artistica che cerca di coglierne gli aspetti inafferrabili…

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