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Roger Daltrey Roger Daltrey
The Kid is alright. A cura di Cosimo Calogiuri. Avete mai mentito a voi stessi? Vi siete mai raccontati qualcosa sapendo che eravate i... Roger Daltrey

The Kid is alright.

A cura di Cosimo Calogiuri.

Avete mai mentito a voi stessi? Vi siete mai raccontati qualcosa sapendo che eravate i primi a non crederci?

A me è successo un minuto dopo aver scoperto le date della tournée italiana di Roger Daltrey; mi dicevo “lascia perdere, ormai ha quasi settant’anni e sarà sfiatato, e poi The Who non esistono più, Keit Moon (batteria), John Entwistle (basso) sono nel regno dei cieli, e Pete “braccio rotante” Townshend è ormai completamente sordo e debilitato da una vita di eccessi.

Volevo conservarli nella mente com’erano, al massimo della forma potenti e sfrontati, e poi non mi convinceva la formazione, mi pareva un po’ raccogliticcia, con il fratello di Townshend, Simon alla chitarra ritmica mi sembrava un oltraggio, e con il resto della band dai nomi praticamente sconosciuti. Questo diceva il mio cervello, ma non avevo fatto i conti con i sentimenti, e siccome al cuor non si comanda, il primo giorno di prevendita acquistai il biglietto per il concento non scoraggiandomi nemmeno per il prezzo proibitivo e la sera del 24 marzo ero nell’unico posto al mondo dove avrei voluto e dovuto essere, ovvero al Teatro Smeraldo di Milano per il concerto di Roger Daltrey.

Un fatto curioso mi accadde alla fine del concerto, perché è dalla fine che voglio iniziare a raccontarvi questa incredibile serata, il teatro ormai vuoto, mi attardavo davanti ai camerini, nella speranza, per fortuna esaudita, di strappare un autografo al vecchio leone del R&B sulla mia copia deluxe di “My Generation”, quando vedo sfilare accanto a me tre pompieri in divisa di ordinanza e uno dei tre, enorme e completamente calvo, una specie di Lotar guardiaspalle di Mandrake, urla eccitato ai colleghi: “Dovete capire che abbiamo visto qualcosa di unico, qualcosa di irripetibile, siamo alla fine di un’epoca, tra poco tutto questo sarà finito perché a questo livello in giro non esiste nulla di simile”. Non crediate che queste parole siano giunte alle mie orecchie per caso, era scritto, lo sento, che l’immenso pompiere doveva passare in quel momento e proferire proprio quelle frasi, perché solo cosi avrei capito che razza di serata avevo appena trascorso.

Realizzai in quel momento che The Who non ci sono più davvero, e Roger Daltrey, con 68 primavere sulle spalle, è probabilmente al suo canto del cigno; ma che mi venisse un colpo se racconto storie, i grandi artisti chiudono in piedi, alla grande e a testa alta, insomma proprio come Roger Daltrey.

Il teatro Smeraldo alle 21.00 è stracolmo e ribollente di passione, (1800 posti, 1650 biglietti venduti, metteteci gli accrediti ed eventuali inviti e non vi entra nemmeno uno spillo). Il palco è bellissimo, spartano e tecnologico allo stesso tempo, luci perfette, Daltrey e la band si presentano sul palco alle 21.10.

Il concerto si apre con “Overture” strumentale che da inizio alle danze, tratto da “Tommy” la grande rock opera datata 1969, che sarà interamente eseguita nella prima parte della serata. Il pubblico segue il concerto quasi in soggezione, applausi copiosi quando Daltrey attacca “It’s a Boy”, primo brano cantato.

Un boato quasi come una rassicurazione, come dire “ok il vecchio leone è ancora lui, sarà una grande serata”, quindi avanti con l’intera rock opera riprodotta minuziosamente: 75 minuti di grande musica che la platea ascolta con devozione e a volte con religioso silenzio, tributando copiosi applausi solo alla fine di ogni brano. Persino nei brani più trascinanti e famosi come “Pinball Wizard” oppure “The Acid Queen” la platea non si distrae più di tanto, quasi a volersi abbeverare alla fonte del rock, tutti vogliono cogliere l’evento in ogni sfaccettatura e gustarsi il suono della band, potente, ma limpido e cristallino.

[captionpix imgsrc=”http://www.fourticino.ch/wp-content/uploads/2015/01/Schermata-2015-01-28-alle-19.31.15.png” captiontext=”Roger Daltrey durante il concerto”  width=400 height=265]

Intorno alle 22.45 Tommy giunge alla conclusione, Daltrey attacca “We’re Not Gonna Take It”, brano che decreta la fine della rock opera più famosa di ogni epoca, quando accadde un fatto curioso:il pubblico perde ogni freno inibitorio. Tutta la platea si alza in piedi accalcandosi sotto il palco, siamo ancora tutti affamati di musica, una notte magica che vorremmo non finisse mai.

Daltrey è provato ma felice; da quel jukebox umano che è non ha che l’imbarazzo della scelta.Con un repertorio incredibile alle spalle può scegliere a caso senza sbagliare e cala un tris d’assi: la lisergica “I Can See for Miles”, e le struggenti “The Kids Are Alright” e “Behind Blue Eyes”, ballate di struggente bellezza cantate, ora e finalmente in coro, da un pubblico appassionato e competente. Ma c’è ancora trippa per gatti, eccome se ce n’é, avanti con “Going Mobile”, una versione pazzescamente blues di “My Generation”, una “Naked Eye” da brivido con il pubblico che risponde “but it don’t really happen that way it all” mettendo a dura prova le fondamenta del glorioso teatro, una inaspettata “Ring of Fire” di Jonny Cash, e poi “Young Man Blues”, Baba O’ Riley, “Young Man Blues” ed una “Blue, Red and Grey” che chiude le danze e pone fine a due ore e trenta minuti di grande musica.

Daltrey presenta la band: Frank Simes alla chitarra solista, Jon Button al basso, Loren Gold alle tastiere, l’ottimo Scott Devours alla batteria, Pete non c’è ma un Townshend al fianco di Roger c’è comunque, ed è Simon eccellente chitarrista ritmico, cresciuto alla corte degli Who e presentato da Daltrey come “mio fratello minore”. Il pubblico è in piedi commosso e felice. Le ultime parole di Roger con la mano sul cuore sono “noi non parliamo la stessa lingua ma sentiamo la musica nella stessa maniera”, ed in fondo ha ragione, non parliamo la stessa lingua ma c’è una stupenda sintonia tra palco e platea a suggellare una serata indimenticabile.

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